ANSIA, SEI CON ME O CONTRO DI ME? (Parte II)
- S. Gorrino A. Diroccia
- 12 mar 2020
- Tempo di lettura: 3 min
Accade che non sia sempre facile riconoscere l’ansia.
Come l’acqua dilaga e prende la forma degli spazi lasciati liberi dal ragionamento e dalla logica.
Si maschera nell’agitazione che non ci fa sentire “a posto”, come se avessimo tralasciato qualcosa di importante, o nel non poter stare fermi: col rischio di cadere in un “fare” frenetico inconcludente e ripetitivo che ci sfinisce. Una specie di vuoto di pensare e di fare.
È una questione di quantità, frequenza, intensità. Fino a certe quote ci troviamo in un percorso ad ostacoli, ma non vengono pregiudicate le nostre attività quotidiane. Siamo innervositi, disturbati, ci sentiamo in affanno, come se affrontassimo sempre strade in salita. Possiamo essere più bruschi con le persone (di solito di più con le persone che per noi “contano”), insicuri, indecisi. Con molta fatica, continuiamo la nostra vita: lavoro, famiglia, amici, casa.
Quando però le quote di ansia aumentano sopra una certa soglia e invadono talmente il pensiero da non lasciare spazio ad altro, la compromissione del normale procedere della nostra esistenza diventa un pericolo concreto. Lavoro, famiglia, amicizie possono risentirne in maniera evidente.
È come se non ci fosse pace, né un attimo di quiete, ma ci agitasse un fuoco interiore che non si spegne e impedisce il pensiero.

Addentrandoci nella dimensione clinica e patologica, ci sembra necessario fornire alcune definizioni, cercando di non perdere di vista la dimensione umana della sofferenza.
L’ansia fobica è contrassegnata da paure irrazionali che si legano a situazioni o luoghi specifici e che hanno come diretta conseguenza la fuga da quelle situazioni o da quei luoghi.
Le forme più conosciute di ansia fobica sono: l’agorafobia e la claustrofobia.
La prima è la paura dei luoghi aperti e degli assembramenti, la seconda dei luoghi chiusi e affollati. Sono accomunate dal timore di trovarsi in luoghi o situazioni dalle quali sarebbe difficile allontanarsi. I pensieri come “che figuraccia!”, “come me la caverò?”, la paura di sentirsi male lontano da casa, diventano delle fissazioni vincolanti e che danno il via a comportamenti di evitamento e di fuga, fino al ritiro completo, da tutto ciò che può scatenare una sequenza di emozioni ansiogene devastanti.
L’attacco di panico si può definire come un attacco improvviso di ansia che travolge la vita di una persona, apparentemente senza motivo, ma che ha a che fare con situazioni anche del passato non elaborate. Tra i sintomi fisici e psicologici, il più significativo è la sensazione netta di morire.
L’ansia sociale si configura come il timore di rendersi ridicoli difronte alle altre persone.
Renderci conto che l’ansia ci rende immobili impedendoci di attuare i progetti che avevamo ideato, spalanca la porta ad una profonda tristezza, che man mano si può trasformare in depressione.
In questi momenti si ha la sensazione di parlare e di non essere capiti, né di capire. Come se si parlassero lingue diverse. Si è come chiusi in un mondo di incomprensione e quindi di solitudine.
Quando sentiamo che l’ansia appesantisce la nostra vita, un aiuto esterno all’ambito familiare e delle conoscenze diventa un alleato a riportare la calma e la logica.
La psicoterapia crea uno spazio dedicato di ascolto che è alla base del dialogo. Il dialogo pone le condizioni per uscire dalla sofferenza, che non significa non avere più ansia. Significa qualcosa in più: appropriarsi degli strumenti personali e originali per affrontarla e gestirla, adesso e in futuro. La personalità di un individuo può cambiare, pur restando fedele alla propria storia personale e alla propria identità.
Quando abbiamo la febbre o abbiamo mal di denti, prendiamo un anti piretico o andiamo dal dentista, lo stesso dovrebbe valere per la nostra salute psicologica. Esistono però stereotipi che rendono difficile avvicinarsi ad un percorso terapeutico: il timore di essere considerati “picchiatelli” e del giudizio (anche dello psicologo); il pensiero che “tanto i problemi sono i miei e nessuno mi può aiutare/capire” e “tengo duro, prima o poi passerà”.
Cercare aiuto non significa essere deboli, significa essere già un passo avanti verso la cura di sé e la consapevolezza. È un atto di forza.
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